PERCHE’ GLI ARCHEOLOGI SONO CONSIDERATI UNA CASTA?

Questo articolo nasce da una discussione, svoltasi qui, sulle pagine di Archeoblog, che è andata a toccare un tasto particolare dell’archeologia, ovvero la percezione che il pubblico ha degli archeologi. Davvero siamo una casta? Quella che segue è un’analisi del motivo per cui è nata questa visione, una sorta di mea culpa che tutti gli archeologi che lavorano sul territorio forse dovrebbero fare.

La prima immagine che viene in mente a chiunque quando si parla di archeologi è quella di Indiana Jones che affronta avventure incredibili e fa scoperte eccezionali, cerca tesori nascosti e svela misteri. I “Wow!” e i “Che bello!” che di volta in volta mi sono rivolti quando dico che sono un’archeologa non si contano, ma quando poi dico dove lavoro, allora l’espressione estatica scompare e anche il discorso dopo poco viene lasciato cadere. La figura dell’archeologo in astratto è avvolta nel mito, ma nel concreto è apprezzata molto meno perché in Italia, tolte giusto Roma, Pompei e poco altro, il lavoro dell’archeologo non è molto considerato.

La concezione dell’archeologia è ancora “romantica”, legata alle scoperte importanti e ai ritrovamenti eclatanti, mentre quando si tratta di fare “piccola archeologia”, archeologia locale, cioè quegli interventi di archeologia urbana che accompagnano (per legge) i lavori pubblici nei centri storici e nelle aree già sottoposte a vincolo, l’atmosfera cambia, e improvvisamente l’archeologo diventa colui che fa rallentare il cantiere per pulire con il pennellino quelle quattro pietre. Come mai questa differenza nell’atteggiamento? Semplice: il nostro lavoro non viene capito. E di chi è la colpa? Nostra, ovviamente! È evidentemente nostra, perché non abbiamo saputo e non sappiamo trasmettere il perché del nostro lavoro, non sappiamo spiegare perché è necessario affiancare i lavori pubblici, scavando sotto le nostre città, e soprattutto, e questo è ancora più grave, non spieghiamo ciò che viene trovato. In sostanza, non siamo capaci di “pubblicizzare” il nostro lavoro, di renderlo pubblico. La trafila di uno scavo tutto sommato è semplice: si scava, si studia ciò che si è scavato, si pubblica ciò che si è studiato. È proprio questo il punto: chi pubblica lo fa su pubblicazioni scientifiche per addetti ai lavori, scritte in un linguaggio poco comprensibile a chi non è del mestiere. E così uno scavo fatto nella città X comporta ai cittadini solo disagi, perché non conoscendo il motivo dello scavo, e non riuscendo a capire cosa sono quei quattro sassi che vedono, essi leggono tutto come un’inutile perdita di tempo e vedono negli archeologi un gruppo di persone che fa un lavoro inutile e che ruba soldi allo Stato (come mi è stato detto una volta!).

Ripeto: è colpa nostra. Colpa nostra che non abbiamo ancora imparato a comunicare agli abitanti di X cosa stiamo facendo. Basterebbe così poco! Eppure non ci rendiamo conto che il nostro atteggiamento attuale da un lato ci “ghettizza”, mentre dall’altro tende a fare di noi una “casta” di persone chiuse in se stesse, del cui lavoro non si sa nulla. Così facendo, questa casta-ghetto esclude gli abitanti di X dal loro territorio, non rendendoli partecipi di scoperte e quindi di informazioni storiche che invece spettano loro di diritto. Ritengo che sia questo il motivo principale per cui il lavoro dell’archeologo è visto con sospetto e diffidenza, come un’invasione della propria terra, che chissà, magari porta allo scoperto chissà quali tesori che poi vengono tenuti nascosti (e così si verificano quegli spiacevoli episodi di scavi clandestini e di buchi dei “tombaroli” col metal detector che non danno altro risultato se non rovinare la stratigrafia del sito e rallentare ulteriormente il lavoro dell’archeologo).

Ritengo sia giunto il momento di comunicare in tempo reale agli abitanti di X ciò che viene scoperto nella loro città, che cosa si sa di più di giorno in giorno sulla loro storia. Non solo. Occorre farlo con un linguaggio semplice, dove semplice vuol dire “non specialistico”. Il pubblico è interessato alla propria storia, all’archeologia, ma non sempre ha i mezzi per poterla capire e comprendere a fondo. Credo che sia significativo in tal senso il fatto che uno dei libri più venduti sotto Natale e anche ora nel 2008 sia “Una giornata nell’antica Roma” di Alberto Angela (di cui ho scritto una recensione sul blog di Comunicare l’archeologia, che invito a leggere): il pubblico è interessato e legge un’opera di divulgazione come solo Angela, che non è archeologo, può scrivere. Eppure quanti volumi sono stati scritti sulla vita quotidiana a Roma? Non hanno avuto lo stesso successo. Alberto Angela sa comunicare col pubblico, sa solleticare le corde giuste della curiosità e dell’attenzione, e per questo il suo libro ha fortuna: un archeologo avrebbe trattato lo stesso argomento impostando il lavoro in maniera ben diversa. E, ci scommetto, avrebbe pubblicato un’opera forse più corretta e dettagliata sotto il profilo scientifico, ma meno divulgativa, quindi più difficile e noiosa. Sono stata contenta di sapere che molti archeologi hanno letto il libro di Angela: e se dalla lettura possono nascere spunti per migliorare il nostro rapporto con il pubblico, ben venga. Personalmente, ritengo che il libro di Angela sia più utile agli archeologi che a tutto il resto del pubblico: la mia è una provocazione, ma sono seriamente convinta che se gli archeologi iniziassero a scrivere come lui, sarebbe un bel passo in avanti per tutta la categoria. Comunicare l’archeologia è il passo che dobbiamo compiere per uscire dalla condizione di “ghetto-casta” che molti ci attribuiscono. Scrivere sui giornali quando si apre un cantiere di scavo nella città X, preparare dei pannelli che spieghino il lavoro in quel cantiere, coinvolgere gli abitanti organizzando incontri con la popolazione, conferenze, servizi sulle TV locali e, perché no?, organizzare visite guidate a fine scavo se il sito lo consente"¦ sono questi i primi passi che si possono compiere per avvicinarci di più al pubblico, anche perché fondamentalmente il nostro non è un lavoro fine a se stesso, ma è un servizio reso alla società, cui restituiamo un pezzo della sua storia.

Marina Lo Blundo
Comunicare l’archeologia


Ultima modifica 2008/05/19