Messina – Appello per lo scavo di via La Farina. 80 mila euro per Ron, solo 35 per gli archeologi
Diamo spazio, in questo post, all’appello del Sig. Giuseppe Restifio in merito allo scavo messinese di via La Farina:
“Zancle fu in principio fondata da’ pirati andativi da Cuma. Ma in seguito dalla Calcide e dal resto dell’Eubea vi andò gran gente che ne possedette in comune il territorio; e capi di quella colonia furono Periere e Cratemene, l’uno di Cuma, l’altro di Calcide. Da principio i Siculi la chiamavano Zancle, perché ha la figura di una falce, e i Siculi chiamano appunto zanclo la falce“. In questo famoso passo, riguardante la fondazione della colonia greca di Messina, risalta il fatto che Tucidide per ben due volte dica “in principio“. Si tratta della narrazione del vero primordio della città, destinata a sposare quel sito sulle rive dello Stretto e a non tradirlo più, a non abbandonarlo più per ventisette secoli.
Di quell’atto fondativo oggi abbiamo un riscontro, non più solo narrato, ma visibile: ce lo restituisce lo scavo archeologico nell’area compresa fra via La Farina, via Industriale e via Nicola Scotto. L’entusiasmo di chi ci ha lavorato in questi ultimi mesi è assolutamente comprensibile e condivisibile: nello strato più profondo ci sono le tracce evidenti del rito sacrificale di fondazione. In quell’area osservata accuratamente e scientificamente dagli occhi attenti e amorevoli di quattro donne – Giovanna Maria Bacci, Gabriella Tigano, Maria Ravesi e Giusi Zavettieri – e nello scavo seguito diligentemente da Angelo Maressa, è riaffiorata un’area sacra di età compresa fra l’ottavo e il sesto secolo a.C., qualcosa che non ha eguali in tutta la Magna Grecia e in Sicilia. Una scoperta eccezionale, che apre un cantiere di studio per archeologi e storici, ma che costituisce anche un punto fermo nella millenaria vicenda di Messina e un richiamo forte dell’identità dei messinesi. “Hic manebimus optime” sembra abbiano detto pirati, naviganti, mercanti, agricoltori e artigiani, greci e siculi, ventisette secoli fa, in quel luogo, e noi messinesi ci siamo ancora.
Non lontano da quel luogo, sempre su via La Farina, aveva la sua casa Giuseppe Restifo, falegname. Durante la guerra sfollò a Francavilla di Sicilia; quando tornò la casa non c’era più, distrutta dai bombardamenti. Ma suo figlio, Paolo Restifo, non volle venire via da Messina, e così il figlio di suo figlio. Ogni famiglia messinese potrebbe raccontare una storia simile, di attaccamento – malgrado tutto – a un sito che, ai suoi occhi, non ha pari al mondo.
Ma oggi lo scavo di via La Farina chiude; non ci sono più soldi per proseguire i lavori e soprattutto si è nella più completa incertezza circa il futuro di quei resti archeologici, di quel monumento della storia e della memoria di Messina. Ci sono persino i debiti con il costruttore del complesso Colapesce, che ha anticipato oltre centomila euro. Il rischio di una colata di cemento non è però un’incognita, è reale, tangibile. Di fronte al privato solitamente tutte le istituzioni messinesi e siciliane si inchinano, non c’è legge di salvaguardia, di protezione dell’interesse generale e dei beni comuni che tenga: il “dio profitto” richiede sacrifici e riti, prontamente apprestati da onorevoli e funzionari, sindaci e presidenti. Si trovano al volo 80 mila euro per far cantare Ron a piazza Duomo, ma quelle mani e quegli occhi che disseppellivano le fondamenta della città non ne hanno avuti più di 35 mila. Né basta l’impegno volontario degli studenti della Facoltà di Lettere, che hanno collaborato allo scavo anche nelle feste natalizie, in mezzo al fango e al freddo.
La Rete di ecologia sociale-Verdi chiede alle istituzioni uno scatto d’orgoglio, un impegno altrettanto solidale, a cominciare dal commissario straordinario al Comune, Gaspare Sinatra, e dal presidente uscente della Provincia, Salvatore Leonardi. Così in ugual modo si dovrebbe attivare la deputazione regionale della città, che pure annovera sensibilità di uomini di cultura, perché la Regione intervenga adeguatamente a salvaguardia dell’area archeologica primigenia di Messina. Il Prefetto potrebbe innescare una Conferenza dei servizi, convocando anche la Soprintendenza oltre agli altri Enti, per predisporre un progetto di salvaguardia primaria di questo bene collettivo.
D’altronde tutti i politici che ci parlano di una futura Messina “città turistica” dovrebbero riflettere su cosa questa città offra di turistico. In altri luoghi – è banale dirlo – un rinvenimento archeologico come quello di via La Farina susciterebbe iniziative, non prive di ricadute economiche. Qui – al di là di ogni discorso sul cosiddetto “water front” – non si può consentire che il cemento ricopra vestigia e memoria, come purtroppo è avvenuto già in troppe altre occasioni a Messina. Sarebbe l’ennesima opportunità lasciata perdere, in una città che, a furia di insistere pervicacemente sull’edilizia privata, s’è chiusa una serie di prospettive occupazionali, di sviluppo, persino di rispetto dei luoghi e dell’identità degli abitanti.
Giuseppe Restifo